Crollo degli investimenti sulle energie rinnovabili in Australia

In un periodo in cui si sentono sempre più spesso termini come riscaldamento globale, buco dell’ozono e cambiamenti climatici, darsi da fare per cercare di salvare il nostro pianeta dall’inquinamento è ormai diventato un obbligo.

La strada da seguire è tracciata già da diversi decenni, attraverso la sostituzione dei combustibili fossili con le energie rinnovabili, quelle, cioè, che il nostro pianeta fornisce in scorte illimitate (parliamo di eolico, solare, idraulico ecc.).

In quest’ottica l’ente scientifico indipendente australiano Climate Council mette in guardia sulla poco chiara politica energetica del governo del proprio paese. Tale mancanza di chiarezza, secondo un rapporto diffuso di recente, spinge i maggiori investitori  in tecnologie per l’energia rinnovabile in altri paesi che, viceversa, sposano la green policy in pieno.

Il dato allarmante, messo in evidenza dall’ente, risiede nel crollo del 70% degli investimenti nei progetti di energie rinnovabili da quando, nel settembre 2013, si è insediato il governo di Tony Abbot.

In aggiunta a questo il rapporto di un altro ente, il Climate Institute, sottolinea che l’Australia ha il maggior tasso di CO2 pro capite fra i paesi sviluppati e che ha bisogno di aumentare l’obiettivo di riduzione di tali emissioni al 40% entro il 2025.

Il confronto con il resto del mondo è impietoso: la Cina ha ritirato 77 Gigawatt da centrali a carbone, sostituendoli con fonti rinnovabili, tra il 2006 ed il 2010 e ne sostituirà altri 20 entro il 2015; l’Unione Europea si è posta come obiettivo una riduzione delle emissioni del 40% entro il 2030 insieme ad un’incidenza del 27% delle fonti rinnovabili sull’approvvigionamento energetico complessivo e gli USA hanno da tempo sposato politiche di energia rinnovabile.

Quello che il popolo australiano, e tutto il pianeta, spera è che l’appello del Climate Council non resti inascoltato ma che si possa intervenire quanto prima per chiarire la politica energetica e attrarre investitori.

L’ambiente è vittima del silente danno causato dai pesticidi.

Nei giorni scorsi si è svolto a Torino l’appuntamento biennale del Salone Internazionale del Gusto. Durante la manifestazione si sono potuti assaggiare dei cibi a base di prodotti, provenienti da un’agricoltura sana e sostenibile. La rassegna è coincisa con le VIII Giornate Mediche dell’Ambiente, che hanno avuto come tema di dibattito: “Agricoltura e salute: il caso pesticidi” . L’evento è stato promosso da ISDE Italia e dall’Ordine dei Medici di Arezzo, con l’intento di voler focalizzare l’attenzione sull’inquinamento ambientale da pesticidi e sulle devastanti conseguenze per la salute umana e per la biosfera. Nella cittadina toscana si sono riuniti numerosi studiosi nei giorni 24 e 25 di ottobre, in assoluto silenzio mediatico, per discutere su come aggiornare le recenti ricerche nell’ambito della sicurezza dei pesticidi.

Dopo due giorni di dibattito e di interventi è emerso da parte dei ricercatori chimici, degli oncologi, dei pediatri, dei biologi, degli agronomi e dei contadini convenuti, che i pesticidi si siano rivelati più pericolosi di quanto fosse stato inizialmente previsto. La biologa americana Rachel Carson, precorritrice del movimento ambientalista, già nel lontano 1962, con il suo libro “Silent Spring” aveva preannunciato, quali sarebbero stati i danni causati da un uso indiscriminato dei pesticidi sia sull’ambiente che sugli esseri umani. All’epoca fu osteggiata e derisa dalle lobby delle multinazionali chimiche e da alcuni membri compiacenti della comunità scientifica internazionale. Oggi a distanza di oltre mezzo secolo il problema sussiste ancora e la gente continua ad ammalarsi e a morire. Solo in Italia si registrano 1.000 nuovi ammalati al giorno di tumore e 185.000 morti ogni anno. Una percentuale altissima di queste patologie è dovuta all’inquinamento ambientale.

Durante la relazione di introduzione al convegno, redatta dal coordinatore del gruppo di lavoro dell’ ISDE, Celestino Panizza, è emerso che il danno causato dall’uso dei pesticidi non sia ancora dimostrabile. Comunque, con i dati finora raccolti , sarebbe già sufficiente per attuare un’azione politica convincente e severa a tutela della popolazione e dell’ambiente. Purtroppo le maestranze della politica italiana, continuano ad essere, secondo la rivista Science, tolleranti all’uso di pesticidi ed erbicidi. Inoltre risulta che l’Italia sia uno dei maggiori utilizzatori in Europa, per ettaro, di insetticidi e che rappresenti da sola il 33% del mercato comunitario. Infatti è stato stimato che vengano utilizzati ben 600 prodotti diversi su 13 milioni di ettari di terreno agricolo, proposti da abili venditori a ignari agricoltori, che ne farebbero uso, senza conoscerne gli effetti sull’ambiente e sulle persone. Oggi ci sarebbero tutti i presupposti per voltare pagina e mirare ad un’agricoltura biologica controllata, sicuramente più sana e senza rischi per la salute. Però certe realtà, sia politiche che industriali, continuano ad ignorare il problema e preferiscono sfruttare l’ignoranza generale per trarne profitto.

Qualcuno addirittura è convinto che i prodotti chimici siano necessari per aumentare la produttività e sfamare una popolazione in costante crescita. Ma questo tipo di atteggiamento non si fonda su alcuna ricerca scientifica e non trova nessuna corrispondenza con gli avvenimenti della “rivoluzione verde“, tra gli anni ’40 e gli anni ’70. Sarebbe stato più utile, se avessero lavorato su come evitare gli sprechi alimentari, sulla qualità nutrizionale degli alimenti e sulla distribuzione più equa dei sussidi destinati all’agricoltura. Forse oggi non pagheremmo con gli interessi gli errori commessi nel passato. Il direttore generale di Aboca, Massimo Mercati, avverte che non esiste alcuna attenzione, da parte del mondo politico sulla gestione della finanza agricola e sulla tassazione dei suoi prodotti. Infatti non regge il principio di chi inquina paga, anche perché sono sempre le solite aziende certificate ad essere le più tartassate e a dover sostenere quelle che non lo sono e che magari non dichiarano nemmeno le tasse e continuano ad inquinare. Inoltre queste, possono anche essere più competitive, proponendo sul mercato prodotti trattati con pesticidi più a buon prezzo di quelli delle aziende attente alla sostenibilità.

L’oncologo Roberto Magarotto, prendendo spunto dalle dichiarazioni di un ricercatore americano, autore di “Growing up with Pesticides“, richiama l’attenzione sugli effetti che possono avere i pesticidi sui bambini ad essi esposti. Lo studioso diceva che “I pesticidi sono disegnati per essere neurotossici, perché sorprenderci che causano neurotossicità?“. Lo stesso discorso vale anche per i tumori: “sono documentate in laboratorio multiple interferenze dei pesticidi con il materiale genetico cellulare: come stupirsi se poi risultano a rischio cancerogeno?” L’elenco delle patologie causate dall’uso di pesticidi in agricoltura è ampio e comprende anche: il morbo di Parkinson, l’Alzheimer, la SLA, le patologie cardiovascolari, le autoimmuni e renali, il diabete, i disordini riproduttivi, le malformazioni e i difetti di sviluppo, l’asma professionale, la bronchite cronica e le malattie della tiroide.

A questo elenco possiamo anche aggiungere la celiachia. Infatti anch’essa è riconducibile all’uso del glifosate, una sostanza contenuta nei più diffusi diserbanti. Poi non dimentichiamo le allergie, le intolleranze alimentari, le eruzioni cutanee, tutte causate dai prodotti chimici usati nelle coltivazioni. Purtroppo si sono rilevate presenze di derivati organici usati in agricoltura e pesticidi anche nell’acqua che beviamo. Non stupiamoci dunque più, se la gente continua ad ammalarsi e a morire. Anche l’oncologa Patrizia Gentilini, conferma che sia stato ampiamente dimostrato in passato,  che vivere in prossimità dei luoghi dove vengono utilizzati, fabbricati o smaltiti i pesticidi, aumenti il rischio di esposizione sia per inalazione che per contatto con l’acqua. Nel 55% delle acque monitorate dall’ISPRA, sono risultate presenti sostanze nocive.

Il governo dovrebbe occuparsi seriamente di questo problema, cercando di limitare i danni e soprattutto di prendere delle misure coercitive nel fare applicare la legge. La tutela della salute della popolazione dovrebbe essere uno dei suoi  primi problemi da risolvere. Inoltre le istituzioni dovrebbero affidarsi a dei veri esperti del settore e assicurarsi che non siano corruttibili dalle aziende chimiche. Ruggero Ridolfi dell’ISDE di Forlì-Cesena, ne è fermamente convinto. Infatti propone che venga attuata una valutazione sulla cosiddetta popular epidemiologyche consentirebbe di ristabilire il prezioso valore di neutralità della scienza. Comunque esistono anche nell’amministrazione pubblica delle mosche bianche, che non pensano solo ed esclusivamente a rimpinguare le casse dello Stato, ma hanno a cuore anche la salute dei loro cittadini. Stiamo parlando dei sindaci di Malosco eVallarsa e di un’incaricata del comune di Malles, tutti appartenenti al Nord Est della nostra Italia, che hanno realmente tutelato la salute pubblica con i fatti e non con le parole. Gradita anche la presenza al convegno dell’unico parlamentare presente, Alberto Zolezzi, del M5S, medico ospedaliero e membro della Commissione Ambiente e Territorio della Camera.

I 40 anni dei Regional Seas Programmes ad Atene

Sono passati 40 anni da quando nel lontano 1947 furono lanciati i primi programmi dell’Unep, l’agenzia Onu per la protezione ambientale, col fine di aiutare paesi tra loro vicini nella salvaguardia dei propri mari. La storia dei Regional Seas Programmes è assai lunga e, dal 29 settembre al 1 ottobre, in occasione del 40° anniversario, si avrà modo di fare il punto della situazione in una tre giorni che avrà sede nella città di Atene.

In questo 16esimo incontro mondiale dei Regional Seas Conventions and Action Plans vi sarà il pressante bisogno di guardare al futuro, senza dimenticare il percorso svolto in questi quattro decenni di attività.

Le minacce per i mari del mondo non sono cessate e, il costante aumento della popolazione mondiale, unito all’incosciente distruzione delle zone costiere per fini turistici, stanno richiedendo un intervento sempre maggiore per la tutela dell’ambiente.

 Sul tavolo di lavoro, oltre ai 18 programmi regionali e Piani d’Azione che coinvolgono 145 nazioni, vi è la necessità di riuscire a sincronizzare i Regional Seas Programmes con gli Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile dell’Onu che dal 2015 andranno a sostituire i più datati Obiettivi del Millennio. Inoltre, si cercherà di ovviare alla costante presenza di plastica negli oceani che costa, al mondo, 13 mld di dollari di danni all’ecosistema marino. Alcune risposte al problema dell’effetto serra potrebbero essere nascoste nel Rapporto sulla tutela delle foreste di mangrovie che popolano le coste dei nostri mari. Queste piante, infatti, sono capaci di assorbire grandi quantità di anidride carbonica, ma la loro presenza è messa a rischio dall’inquinamento delle acque salate di tutto il pianeta. Ecco perché è indispensabile un’azione collettiva e ben coordinata.

La Costa Pacifica e il programma crociera sostenibile

Le navi da crociera, producono una vasta mole di rifiuti, così nel 2011 la Costa Crociere si è iscritta al programma Sustainable Cruise, del valore di quasi 3 milioni di euro e cofinanziato dalla Commissione Europea all’interno del progetto LIFE+. La prima nave a sperimentare il sistema ecosostenibile è stata la Costa Pacifica.

Il progetto è articolato in varie fasi, la prima prevede la riduzione degli imballaggi e della carta, oltre alla gestione intelligente dei rifiuti biodegradabili. La fase di sperimentazione del progetto è terminata il 30 giugno 2014 e i risultati ottenuti sono positivi: la Costa Pacifica è stata dotata di meccanismi per la gestione dello smaltimento rifiuti secondo il principio di: Riduzione della mole, Recupero e ove possibile Riciclo. La Costa Pacifica produce 155 m³  di rifiuti ogni settimana, ma grazie al programma Sustainable Cruise sono stati divisi per categoria, per ciascuna delle quali è stato adoperato un diverso sistema di smaltimento.

Tutti i rifiuti compostabili o biodegradabili sono confluiti nel turboessicatore, mentre le bottiglie di vetro, quasi 12.000 per crociera,  hanno lasciato il posto a quelle in plastica riciclabile. Questo semplice accorgimento ha alleggerito il carico di rifiuti di circa  7.400 kg .  Stesso procedimento è stato adoperato per 6.500 vasetti di yogurt, rimpiazzati da materiale tetrapak,che ha ulteriormente ridotto di circa 33 kg i rifiuti generati dalla nave.

La Costa Pacifica ha inoltre promosso molte iniziative per sensibilizzare i passeggeri e il personale a bordo, in particolare contro l’eccessivo spreco della carta, tutte le brochure e materiali informativi sono stati digitalizzati, facendo diminuire ulteriormente il carico rifiuti.

Italia, un’impronta ecologica da ridurre

L’Italia fa parte dei paesi del Mediterraneo che, oltre a trovarsi in una situazione di debito ecologico, deve affrontare anche un periodo di crisi economica che dura da troppo tempo. Ed è in questo scenario che entrano in gioco la dinamica e la volatilità dei prezzi.

Dal 1961 al 2004, l’impronta ecologica di ogni singolo cittadino italiano è passata da 2 a 5 ettari globali, facendo registrare più di un raddoppio. La domanda pro capite di risorse naturali nel nostro Paese continua ad aumentare ed è tra le più elevate di tutta Europa. Nel corso degli anni dal 2005 al 2010, l’impronta ecologica pro capite è diminuita ed è scesa fino a 4,5 ettari a persona. Tuttavia, questa sostanziale riduzione non nasce da una serie di oculate politiche ambientali, ma da un incremento dei prezzi e dalla crisi finanziaria. La situazione italiana è molto simile, ad esempio, a quella di Grecia e Spagna.

Numerose sono le scelte che possono essere intraprese dalle varie nazioni con lo scopo di promuovere uno sviluppo ecosostenibile nonostante risorse naturali piuttosto limitate. Tutto ciò è dovuto alla manovra di ingenti bilanci finanziari e di numerose decisioni dal punto di vista infrastrutturale. L’impronta ecologica dei cittadini italiani è dovuta soprattutto ai consumi alimentari e domestici e al settore della mobilità. Il primo passaggio da effettuare dovrebbe riguardare una riforma delle politiche in questi tre campi, in grado di diminuire la dipendenza dalle risorse naturali e rilanciare l’economia. L’Italia è un Paese dalla grande tradizione agricola, ma importa numerosi prodotti da altri territori, come ad esempio cereali e carne dalla Francia e frutta e verdura dalla Spagna. La maggior parte di questo cibo viene sprecato e questi sprechi dovrebbero essere ridotti al minimo, rilanciando la produzione agricola e producendo sempre più cibi biologici.

Per ciò che concerne al settore domestico, siamo vittime di una società nella quale utilizziamo materiali per creare oggetti subito gettati via, così come ci ricorda anche il geologo Mario Tozzi. Persino la plastica viene adoperata ogni giorno per imballaggi e la fabbricazione di prodotti che nella maggior parte delle occasioni vengono usati poche volte. Si possono creare politiche atte alla diminuzione degli imballaggi e alla produzione di prodotti riparabili e riutilizzabili, con elevate possibilità di riciclo. Fondamentali sono il risparmio e l’efficienza dal punto di vista energetico. Inoltre, parlando del settore dei trasporti, avremmo bisogno di misure che intendano favorire i mezzi pubblici rispetto a quelli privati, oltre che di investimenti nel settore che mira alla ricerca dello sviluppo di combustibili alternativi e di tecnologie moderne per produrre energia elettrica. Questa serie di politiche è attualmente poco considerata dal governo.

Nel corso degli ultimi anni, si sente parlare molto della cosiddetta economia circolare e, con un po’ di voglia di osare, si può proporre un sistema moderno per ridurre l’impronta ecologica italiana. Un metodo che può favorire anche il rilancio economico e che ha il fine di svolgere una forte riconversione agricola del sistema economico italiano. In questo modo, i terreni agricoli servirebbero per produrre cibo (e quindi rivalutare le eccellenze alimentari), combustibili (come ad esempio il bioetanolo e i biocombustibili derivanti da scarti forestali ed agricoli) e di plastiche alternative (a base di amidi, cellulose e oli vegetali).

Un regalo dal mare

Forma immense praterie nei fondali marini, indispensabili per l’habitat e la sopravvivenza di molte specie di pesci, ed è un indicatore di mare pulito: la posidonia oceanica, erronamente considerata un alga, è invece una pianta acquatica, endemica del Mar Mediterraneo.

Tuttavia è anche tristemente nota poichè costituisce un problema ambientale su molte spiagge dei notri litorali:  le foglie della poseidona, infatti, in alcuni periodi dell’anno e in determinate condizioni, si accumulano sui litorali creando “montagne” che presto vanno in decomposizione ed emanano un odore alquanto sgradevole. Sebbene questi accumuli in qualche modo servono a proteggere le spiaggie dall’erosione, costituiscono anche un grosso fatsidio per quei litorali che accoglono turisti e strutture balneari. e poiché vengono  considerati “rifiuti solidi da smaltire” la loro rimozione costa ai comuni cifre che spesso non possono permettersi.

E allora ecco l’idea, nata  da un imprenditrice sarda, Daniela Ducato, la quale già si occupava del “riciclo”degli scarti delle lavorazioni agricole, affiancata da Alessio Satta, direttore generale dell’Agenzia Conservatoria delle Coste dell’assessorato alla difesa dell’ambiente della Sardegna: utilizzare gli enormi cumuli di poseidoni nella bioedilizia., creando un fibra intelligente, chiamata lana di mare e brevettata dall’azienda Edilana Group.

Questo particolare materiale è stato così utilizzato, insieme alla lana di pecora, per ricoprire i tetti ad alta efficenza energetica con un risparmio che si aggirà intorno al 30%: uno straordinario risultato. “In quest’ottica”, spiega Satta,  “è nata un anno fa una positiva interlocuzione da parte di Comuni e Istituzioni con Edilana Group e insieme si è raggiunto un ottimo risultato. Ben vengano le collaborazioni tra pubblico e privato quando queste permettono in modo concreto di risparmiare denaro pubblico, trasformando un problema ambientale in opportunità innovative che producono lavoro, fanno bene al clima del pianeta, e quindi traducono nella pratica i principi dello sviluppo sostenibile”.

#AmbienteProtetto: focus su scuole, rifiuti e rischi idrogeologici

Buone notizie per le scuole, a cui arrivano finanziamenti agevolati per aumentarne l’efficienza energetica, ma anche interventi per mettere un freno al rischio idrogeologico: sembra che il Governo abbia deciso di colpire al cuore alcuni dei problemi che da decenni attanagliano l’Italia.

Cosa dice nello specifico il provvedimento #AmbienteProtetto, che è stato varato venerdì dal Consiglio dei Ministri? In realtà il testo esatto non è stato ancora rivelato, ma tra i punti nevralgici ci sono quelli appena nominati. Partiamo quindi dal tema (molto attuale) del rischio idrogeologico: è previsto un risparmio di 1.800.000 euro perché ai Comuni verranno evitati infiniti passaggi, ma sarà tutto posto sotto il controllo del Presidente della Regione, per dare maggior velocità alle operazioni. Il termine per questi lavori è il 31 dicembre 2015.

Anche per quanto riguarda i rifiuti ci sono novità di rilievo, sempre con lo scopo di eliminare parte della burocrazia e quindi spese e tempo perso. Per le bonifiche ci saranno procedure semplificate: non significa ovviamente meno controllo ma maggiore rapidità nei tempi per chi garantisce step sicuri e soprattutto interventi legati alla salvaguardia di territori che abbiano una specifica vocazione ambientale.

Inoltre  alla bonifica dell’amianto è dedicata una parte del Fondo per lo Sviluppo e la Coesione.

E le scuole? Per loro in arrivo 300 milioni di euro di finanziamenti allo 0,25%, provenienti dal fondo rotativo “Kioto” e questo aiuto deve essere usato per alzare di almeno 2 classi energetiche la loro efficienza.

La ciliegina sulla torta di questi interventi è l’esclusione dal patto di stabilità delle spese legate alla messa in sicurezza e riqualificazione delle scuole. Ci si augura che questo sia solo l’inizio di una serie di interventi concreti, che sarà necessario portare avanti nel tempo: l’Italia ha davvero bisogno di cure urgenti ed efficaci.

E. On Energia ottiene l’Uni Cei 11352 e si aggiunge alle Utility italiane certificate

Grazie ad un risparmio dell’78% fatto conseguire all’azienda veneta Berto Industria Tessile sui consumi energetici, E. On Energia ottiene la qualifica Uni Cei 11352 ed entra di diritto tra le circa 90 società di servizi energetici certificate in Italia.

Non solo risparmio energetico, grazie all’ efficient lighting, ma anche maggior rispetto dell’ambiente, con una riduzione di 7,5 ton/annue delle emissioni di CO2 e minori costi di manutenzione con le nuove lampade. La presenza di sensori in grado di captare il cambiamento della luce naturale permette inoltre la regolazione delle lampade per non avere mai situazioni si spreco energetico.

L’essere rientrati come Esco certificata, sottolinea la già grande attenzione che l’ E. On Energia ha verso i suoi clienti, sia aziende che privati: e sono già in 800.000 ad aver dato fiducia a questo importante gruppo. È inoltre una garanzia anche dal punto di vista finanziario per chi decide di affidarsi ad essa, perché solo chi hai conti in perfetto ordine può aspirare a questo tipo di certificazioni.

L’ E. On Energia, come Esco certificata, deve quindi di ricercare e garantire in tutte le sue forme, l’efficienza energetica, a partire da un audit energetico, che ha lo scopo di realizzare un Piano Energetico, evidenziando le diverse voci di consumo, ad esempio all’interno di un’azienda, il peso economico e le possibilità di avere un miglioramento energetico.

Una volta fatta la diagnosi energetica, E. On Energia è in grado di realizzare anche impianti con sistemi di cogenerazione e di generazione distribuita.

UE teme la crisi energetica, caos in Ucraina e Iraq

 Mentre la crisi russo-ucraina non accenna a migliorare, ma scivola sempre più verso il baratro di un guerra infinita, sia l’Europa che l’Italia s’interrogano con ansia su quale sarà la propria la situazione energetica una volta che l’Ucraina avrà terminato le scorte. Questa drammatica evenienza si materializzerà verso dicembre, e a quel punto (ma forse anche prima) la UE dovrà fare i conti con una posizione piuttosto scomoda, cioè l’essere considerata dalla Russia una dei fautori della forte ostilità e resistenza dell’Ucraina nei suoi confronti.

Questa situazione pone il dito nella piaga delle politiche energetiche e nonostante l’Italia si stia dimostrando sensibile da questo punto di vista, la strada da fare è ancora davvero tanta. Inoltre non si può evitare il problema Ucraina volgendo semplicemente lo sguardo verso altri lidi, perché anche Libia e Iraq sono ogni giorno fronti sempre più caldi e poco disposti a mettere a disposizione le proprie risorse energetiche, se non a prezzi altissimi. Queste tematiche saranno sicuramente tra le prime ad essere trattate, soprattutto perché essendo vicino il semestre di presidenza italiana, si vorrà porre l’accento su di esse.

Ci si poteva forse esimere dal dichiarare il proprio sostegno a favore dell’Ucraina, come d’altronde hanno fatto gli Stati Uniti, per proteggere i propri interessi, oppure ignorare la situazione irachena? Ovviamente no e anzi questa situazione, ancorché critica, sembra creata ad hoc per aprire una riflessione che coinvolga l’Europa intera nel vedere se stessa come un’unica nazione, abitata da un unico popolo, che condivide problemi ma anche risorse.

Insieme, i vari Paesi dell’Ue potrebbero realizzare progetti magari a medio termine, ma in grado di regalare finalmente al nostro continente una maggiore indipendenza energetica.