Crescono i prezzi del pellet ma anche il suo utilizzo

Come quasi tutti avranno sentito ai telegiornali o letto sui quotidiani, a dicembre 2014 il governo Renzi ha approvato una riforma che prevedeva l’aumento dell’IVA sul pellet (ed il relativo prezzo) che è così passata dal 10% precedente al 22% attuale.

Si tratta sicuramente di un aumento non di poco conto, anche e soprattutto perché il pellet è notoriamente la forma di riscaldamento più usata dalle famiglie del ceto medio che volevano risparmiare sul riscaldamento di casa, e quindi con risorse economiche piuttosto limitate.

In questo modo, la riforma si è tradotta in un aumento della spesa per famiglia di circa 50-70 Euro annuali ma, nonostante questo aumento dei prezzi del pellet, il suo utilizzo come fonte primaria di riscaldamento ed anche il consumo da parte di chi già lo utilizzava. L’Italia, infatti, rimane il primo paese in Europa per consumo di pellet il quale proviene per la maggior parte dall’estero.

La produzione di pellet in Italia, infatti,  si attesta intorno alle 550 mila tonnellate e riesce a coprire solamente una piccola parte del consumo interno, ovvero circa il 25% di un totale di 2.500 mila tonnellate consumate ogni anno. Per questo motivo, solo una piccolissima parte di questo pellet viene destinata ai mercati esteri: lo 0,5% circa.

Per soddisfare il fabbisogno interno di pellet l’Italia ha molte aziende che si occupano dell’importazione del pellet a prezzi da offerta e lo commercializzano nel Belpaese cercando di conservare una rete distributiva il più efficiente possibile. Solo minimizzando le tratte dei trasporti, ed ottimizzando la dislocazione dei magazzini, si riesce infatti a offrire il miglior pellet a prezzi competitivi che possano soddisfare il maggior numero di clienti di ogni tipo, privati ed azienda.

Uno dei costi che incide maggiormente sul prezzo del pellet al consumatore, infatti, è proprio il trasporto. Essendo i prezzi del petrolio, ed in generale dei carburanti fossili, sempre più alti e le tratte da coprire sempre più lunghe, è importante che l’importazione del pellet dai paesi produttori avvenga nel modo più breve possibile.

I principali produttori di pellet, infatti, si trovano nell’Est d’Europa e sono paesi come l’Ucraina, la Russia, la Lettonia e la Lituania; tutti relativamente distanti dall’Italia. Se poi contiamo la morfologia del territorio del nostro Paese, ricco di catene montuose, sicuramente non aiuta nell’azione di contenimento delle distanze e contemporaneamente dei prezzi del pellet che poi troviamo in vendita tutti noi consumatori.

Verbania è il capoluogo italiano più sostenibile per l’ambiente.

La cittadina piemontese è risultata prima in classifica nella graduatoria di Legambiente, seguono Belluno, Bolzano, Trento e Pordenone.

Durante la XXI edizione di Ecosistema Urbano, il rapporto di Legambiente, in collaborazione con Ambiente Italia Il Sole 24 Ore, ha delineato un quadro non positivo della sostenibilità urbana nel nostro paese. Infatti si registrano: inquinamento atmosferico a livelli di emergenza, un incremento della motorizzazione, una gestione irresponsabile dei rifiuti e crisi nel trasporto pubblico.

Inoltre per le prime cinque città classificate, l’aria che tira non è tra le migliori. Difatti a Verbania e Belluno la rete idrica ha perdite ovunque, che comportano la fuoriuscita di un terzo dell’acqua immessa. Trento ha valori inaccettabili di biossido di azoto e Pordenone riesce a depurare a malapena, la metà dei suoi scarichi fognari. Nel sud Italia troviamo invece,  ultime in classifica le città di Agrigento, Isernia, Crotone,MessinaCatanzaro e Reggio Calabria. É opinione di Legambiente che le città italiane siano lenteanzi lentissime e addirittura statiche.

A VERBANIA UNA PANORAMICA DELL’ITALIA.

L’Ecosistema Urbano, giunto ormai alla sua ventunesima rassegna, ritiene che ci sia la necessità di rinnovare le strategie, per attuare un rinnovamento radicale delle città. Inoltre reputa che serva un progetto nazionale serio che assegni un posto di rilievo alle città nell’agenda politica, evitando inutili frammentazioni nei singoli provvedimenti, ma soprattutto che riporti l’autorità politica a gestire ed a vivere di persona le realtà urbane. Secondo Vittorio Cogliati Dezza, Presidente di Legambiente, il decreto SbloccaItalia, purtroppo rappresenta l’ennesimo fallimento a discapito delle città.

Nel 2014 sono stati selezionati ben 18 indicatori per confrontare i 104 capoluoghi italiani. Tre si sono basati sulla qualità dell’aria, monitorando le concentrazioni delle polveri sottili, del biossido di azoto e dell’ozono. Altri tre hanno contribuito al controllo delle acque, rilevando i consumi, le perdite della rete e gli impianti di depurazione. Due indicatori si sono concentrati sullo smaltimento dei rifiuti, analizzando la produzione e la raccolta differenziata. Due sul trasporto pubblico, evidenziando il tipo di offerta e l’utilizzo reale da parte della clientela. Cinque indicatori invece , sono serviti per la mobilità, hanno osservato gli incrementi di auto e moto, il modal share, la possibilità di nuove piste ciclabili e le isole pedonali. Un solo indicatore sulle cause di incidenti e gli ultimi due, sul tema dell’energia con l’analisi dei consumi e la diffusione delle fonti rinnovabili.

La ricerca bresciana finanziata dagli Usa

Una ricerca sull’inquinamento che viene svolta in Italia ma è finanziata dagli Stati Uniti: in tempi di crisi economica, succede anche questo nel Belpaese. L’Università Cattolica di Brescia, infatti, sta conducendo uno studio di grande valore dedicato agli effetti che l’inquinamento dell’atmosfera ha sulla salute dell’uomo: studio che, però, si avvale di fondi americani.

A spiegarlo è stato il preside della facoltà di Matematica e Fisica dell’Università Cattolica di Brescia, Alfredo Marzocchi, che non senza amarezza ha sottolineato che il costo di un assegnista di ricerca si aggira intorno ai 25mila euro: vale a dire, quello che il Comune spende per uno spettacolo estivo di fuochi di artificio. Ecco, dunque, che una ricerca di prestigio, che prende in considerazione l’impatto dello smog sulla salute umana, ha bisogno di essere finanziata addirittura da Oltreoceano.

Nello specifico, la ricerca fa parte di un progetto che è coordinato dal professore Roberto Lucchini, e che è realizzato insieme con la Icahn School of Medicine di Mount Sinai. I fondi economici per portarlo avanti, invece, arrivano nientemeno che dal National Institute of Enrivronmental Health Sciences degli Stati Uniti, l’Istituto Nazionale delle Scienze Ambientali della Salute.

Il prorettore delegato al coordinamento delle attività di ricerca della Statale Maurizio Memo, in ogni caso, ha voluto sottolineare che per le attività di ricerca quest’anno sono stati raccolti quasi sei milioni e mezzo di euro. Considerando che siamo solo all’inizio di ottobre, e che in tutto il 2013 la cifra raccolta si era fermata a quattro milioni e mezzo di euro, si può parlare di un evidente passo avanti.

Va detto, per altro, che circa un quinto di tali fondi proviene da fondazioni e istituzioni non europee, e in particolar modo americane (un po’ come è accaduto nel caso della ricerca sull’ambiente dell’Università di Brescia). L’importante, comunque, è che lo studio dia risultati certi.